Lo stemma episcopale dell'arcivescovo Alberto Torriani

Si sappiano da lui conosciuti

Lo stemma episcopale

Il significato dello stemma di un vescovo

Lo stemma di un vescovo è simbolo della sua identità e missione pastorale.

Questa tradizione affonda le radici nel Medioevo, quando l’araldica era il linguaggio visivo usato per rappresentare persone e istituzioni.  

Lo stemma episcopale è composto da vari elementi:    

  • - Lo scudo, che racchiude simboli legati alla spiritualità, alla diocesi o alla storia personale del vescovo.  
  • - Il cappello prelatizio (galero), verde con sei nappe per lato per i vescovi, verde con dieci nappe per lato per gli arcivescovi, e rosso con dieci nappe per i cardinali.  
  • - La croce episcopale, posta dietro lo scudo, che varia in forma a seconda del rango.  
  • - Il motto, una frase che riflette la missione e la spiritualità del vescovo.

Lo stemma di monsignor Torriani  

Lo stemma scelto dall’Arcivescovo Alberto è diviso in quattro parti e lo scudo è distinto dagli usuali contrassegni arcivescovili, ovvero accollato alla croce astile d’oro a due braccia e sormontato dal galero con 20 fiocchi verdi.  

Al vertice dello scudo quattro cuori (come già nello stemma episcopale del Card. Martini, omaggio ai maestri e pastori conosciuti) ciascuno dei quali rappresenta i quattro luoghi di vita del ministero sacerdotale; le quattro città dove lo Spirito, con imprevista creatività, si è reso presente. Novate Milanese, luogo sorgivo di nascite umane e vocazionali; Monza, nelle stagioni degli entusiasmi giovanili e delle iniziali appartenenze ministeriali; poi Gorla Minore nelle età delle prime responsabilità e poi Milano nella stagione della maturità umana e della creatività pastorale e del legame più stretto con la Diocesi e i suoi pastori. Su tutti questi luoghi la comunanza della passione educativa per i ragazzi e i giovani che ‘timbra’ in modo indelebile le esperienza e la carne.  

Al di sotto dei cuori, una moneta d’oro evoca il talento evangelico da trafficare e da riconoscere come dono di Dio nella singolarità e unicità di ciascuno, in particolare nei giovani e nella scuola, luogo privilegiato dove ricevere e donare quella Vita che chiede di essere ‘espansa’ e ‘condivisa’.  

La mano aperta che si protende verso l’altro è l’umanità trasfigurata dal Vangelo che è capace di carezza, di custodia e sostegno, di compagnia e affidabilità, di promessa e di incoraggiamento. Nel gesto sacramentale della Misericordia è ‘mano che scioglie gli affanni’: luogo privilegiato dove don Alberto ha ‘toccato con mano’ lo Spirito all’opera in cuori feriti e in volti trasfigurati dalla grazia.  

Sulla banda al centro dello scudo, un pesce barbo che si pescava nel lago di Tiberiade ai tempi di Gesù. Il rimando è al capitolo 21 del Vangelo di Giovanni, vera casa del cuore da abitare e a cui fare spesso ritorno. Lì è descritto un incontro tra Gesù e alcuni suoi discepoli sulla riva del mare di Galilea, ignari costoro che Lui fosse il loro maestro Risorto che li saluta chiedendo loro da mangiare e promettendogli futuro con reti sovrabbondanti. Gesù si interessa di loro, alle loro vite concrete e loro si sentono da Lui conosciuti. Si sperimenta cosi la passione dell’incontro fino a farla divenire lo stile del vivere.  

Su tutto l’azzurro dello sfondo, richiamo alla madre di Gesù venerata a Milano come ‘Maria Nascente – Madonnina del Duomo’ e a Crotone come la Madonna di Capo Colonna.  

Il motto ‘si sappiano da lui conosciuti’  

Sentirsi conosciuti da qualcuno è l’esperienza di chi sa di essere amato e voluto, desiderato e custodito e per questo capace di sguardi di futuro di promettenti e fecondi.  

Tratto da un testo di M. Delbrel, queste righe sono è una parte dei voti augurali che ella scrive in occasione dell’ordinazione sacerdotale di un amico, poi divenuto Cardinale di Parigi. La figura e la statura spirituale di questa donna francese del secolo scorso - laica assistente sociale nelle periferie parigine, poetessa dell’ umano e del suo cuore come luogo di presenza del Mistero – fa da riferimento allo stile e all’interpretazione del ministero episcopale come servizio all’umano ed è la filigrana con cui rileggere tutto il Vangelo, in ogni sua relazione e in ogni sua parola.  

Si torna qui al capitolo 21 di Giovanni. Su quella riva del lago, Gesù con quella domanda rivolta ai discepoli, li riporta alla loro più intima essenza, al loro più profondo essere. Non chiede loro di riportare a terra la barca e di affrettarsi verso di lui. Il suo solo desiderio è che trovino la loro strada e siano dei buoni pescatori. Progetta la pienezza, salva la loro identità. Di questa pienezza di vita, di questa salvezza che rigenera anche notti infeconde e restituisce valore e vita il vescovo si fa interprete e voce.  

"Desideriamo per lui che realizzi nella sua vita ciò che noi stessi vorremmo trovare in lui: innanzitutto ciò che il sacerdote ci può donare, il Cristo della Messa e dei Sacramenti; e, se pensiamo per prima cosa a questo, è perché ciò è molto più del sacerdote stesso, fosse pure un santo o un genio. Poi, ciò che desideriamo è che, prima di essere questo o quello, egli sia di Gesù Cristo; che sia il vivente richiamo di ciò che, nel più profondo di ogni battezzato, è di Dio; che sia "l'uomo di Dio" e tutto il resto in lui sia come una conseguenza della sua appartenenza a Dio. Poi, ancora, che egli parli a Dio e che parli di Dio. E, poiché tutto ciò che noi vorremmo trovare nel prete non rimane, non sta, in qualche misura, al di fuori di noi, quasi al margine degli uomini, desideriamo che egli sia un uomo, rimasto uomo, che gli uomini possano toccarlo, ascoltarlo, capirlo e che si sappiano da lui conosciuti, tanto in ciò che essi conoscono di sé, quanto ciò che di sé ignorano. Desideriamo per lui che creda alla gioia, il che non si riduce a dare prova di ottimismo. Ci sembra che la gioia cristiana, quella che il Signore chiama "la mia gioia", quella che egli vuole che sia "piena", consista nel credere concretamente - per fede - che noi sempre e dovunque abbiamo tutto ciò che è necessario per essere felici. Così sia" (M. Delbrel).